Luigi Lusi, l'ex tesoriere della Margherita, accusato di
aver iintascato una ventina di milioni del partito, e' finito in carcere. I
suoi colleghi del Senato hanno votato sì all'arresto. Sembra più un voto di pancia, che di testa. Anche perché
da quei palazzi continuano a uscire voti discordanti. Un altro senatore
graziato, un altro, Lusi appunto mandato a Rebibbia.
Sembra poi quello di ieri un voto per mandare un segnale, per dare in pasto all'opinione pubblica un capro espiatorio, per dire che i politici non debbono avere privilegi rispetto ai cittadini comuni. Forse alla base di tutto c'e' stato lo spettro di Mani Pulite a tormentare la classe politica che ha fatto spingere il pulsante dei senatori per il si. C'è il fantasma di un'epoca storica in cui cinque partiti vennero demoliti. C'è l'incubo della valanga, dell'ondata che, dopo aver distrutto la Prima, rischia si sgretolare anche la Seconda Repubblica. Ma onestamente non convince il voto. Non perche' e' stato spedito in carcere un parlamentare. Ma perché dietro il voto ci sono retroscena e interessi della casta.
Quelli che hanno sacrificato Lusi lo hanno fatto per scaricare su altri, su uno che se saranno confermate le accuse merita il carcere, le proprie colpe, le proprie responsabilita, le proprie incapacità. Non possono farci credere di essere delle mammolette, che non sapevano nulla, che non vedevano e sentivano nulla dei soldi pubblici. I nostri politici parlano e parlano dei finanziamenti ai partiti ma non fanno nulla per cambiare le cose perche dicevano i latini il denaro non puzza, parlano di una legge elettorale che fa schifo e non fanno nulla per cambiarla perché fa comodo a tutti, destra e sinistra, mandare in parlamento i propri scagnozzi. E a parte questo, che dire di quelli del Pdl che come ponzio pilato se ne sono usciti dall'aula per non prendere posizione? Nulla, non ci sono parole.
C'è un'atmosfera di terrore in cui i toni contro Luigi
Lusi, ex tesoriere di partito ora reietto, perché calamiti su di sé la «rabbia»
dei cittadini e salvaguardi, almeno per un giorno, l'onore generale. Stanno sulla difensiva, i politici in Senato. Solo che
stavolta non scavano una trincea come hanno fatto in passato per erigere un
muro tra se stessi e il resto del mondo. No, si mettono sulla difensiva
mostrandosi paladini dell'anti-Casta. Non si arrendono, beninteso. Solo che
fanno finta di passare per caso per il Palazzo e sacrificano un politico con la
speranza di salvare tutto il resto. Uno spettacolo stupefacente. Rovesciano su
Lusi sarcasmo e indignazione per trasmettere il messaggio: è lui il reprobo,
noi detestiamo i privilegi della politica. Sembrano degli alieni, digiuni di
politica, immacolati, pronti a stupirsi delle cifre di cui godono partiti ed ex
partiti grazie al finanziamento pubblico di quegli stessi partiti ed ex partiti
ribattezzato pudicamente «rimborsi elettorali».
Il presidente Follini fa il paragone tra quanti milioni
ha maneggiato (illecitamente) Lusi e gli stipendi di operai e insegnanti: ha
gioco facile lo stesso Lusi a chiedere lo stesso paragone tra gli stipendi di
operai e insegnanti e l'ammontare complessivo, centinaia e centinaia di milioni
di euro, dei finanziamenti statali dei partiti (formalmente leciti, anche se in
violazione di un referendum popolare). Un senatore del Terzo polo si
scandalizza perché Lusi a Venezia si è fatto venire a prendere nientemeno che
da un motoscafo. Adesso, solo adesso deve aver scoperto lo sciupio di macchine
blu, alberghi a cinque stelle, voli aerei in prima classe di cui i politici si
trastullano da qualche decennio con ostentazione spesso pacchiana, comunque
impudica. Ma si sa, c'è l'ondata dell'«antipolitica» da arginare (la «valanga
del discredito», evocata con costernazione da Luigi Zanda), c'è la paura di
essere travolti come nel biennio tra il '92 e il '93 a riempirli di sgomento:
sacrificarne almeno uno per salvare il salvabile.
Perché la paura è alimentata dal ricordo che, allora, ben
pochi si salvarono. Il voto che in Parlamento non diede il 29 aprile del '93
l'autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi, evento analogo a quello
vissuto ieri in Senato, fu solo l'acme di un uragano che aveva già demolito i
pilastri della Prima Repubblica. Quel voto rischiò di far abortire il nuovo
governo Ciampi con le dimissioni dei ministri del Pds e di Francesco Rutelli
(l'eterno ritorno?). Alimentò la gogna del Raphael con il lancio di monetine
che mimava il gesto del ghigliottinamento mediatico e della piazza scatenata
prima ancora che giudiziario. Ma intanto un deputato leghista si era già munito
di cappio da agitare contro i suoi colleghi, tutti i suoi colleghi, di destra e
di sinistra, equiparati a un'accolita di ladri da mandare all'impiccagione.
C'erano i missini capeggiati da Buontempo («Er Pecora») e da Gramazio («Er
Pinguino») che fecero un circolo attorno al Parlamento e dai megafoni gridavano
rauchi: «Arrendetevi, siete circondati». C'erano stati già due referendum
elettorali che avevano rappresentato altrettanti plebisciti contro la classe
politica. Erano i giorni, aprile del '93, in cui era scattata l'incriminazione
per Giulio Andreotti a Palermo. Cadevano tutti i partiti del governo e
dell'area di governo: anche Claudio Martelli che tentò tardivamente di
smarcarsi dalla tutela di Craxi (già dimessosi da segretario del Psi); anche
Giorgio La Malfa, che aveva lanciato la formula del «partito degli onesti».
Quasi tutti vennero sommersi. Ci furono i «salvati», che pensavano di rifarsi
una rispettabilità mettendosi al riparo dell'ombrello pidiessino, dato per
sicuro vincitore nelle nuove elezioni. Mai scommessa fu meno prudente.
Oggi il clima assomiglia a quello di vent'anni fa. Le
ondate di «discredito» sembrano altrettanto potenti. E nel Palazzo della
politica molti sentono di essere arrivati a un tornante decisivo della loro
vita. Mostrarsi cedevoli nei confronti della sorte personale di Lusi avrebbe
significato un altro colpo micidiale alla stessa possibilità di una
sopravvivenza (politica). Allora la modifica dell'articolo 68 della
Costituzione, liquidata come un'intollerabile immunità per la politica,
costituì il tentativo estremo per darsi un tono, per dire all'opinione pubblica
dei cappi e delle ghigliottine che ogni peccato sarebbe stato emendato. Oggi ci
si prostra davanti al mito del « fumus persecutionis », l'espressione più
menzionata nei corridoi e nell'Aula del Senato. Tranne i senatori della Giunta,
pochissimi hanno letto tutte intere le carte per stabilire se un loro collega
dovesse essere sbattuto in galera senza l'ombra del terribile « fumus ». Hanno
votato (o non votato, come quelli del Pdl) a prescindere. Ordini di partito,
più che voti di coscienza. Ultima spiaggia prima di rischiare l'affogamento dei
profeti dell'«antipolitica». Che il voto sull'arresto di Lusi sia sufficiente,
questa, come già accadde nel '93, è una scommessa molto imprudente.
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