giovedì 8 dicembre 2016

Il terremoto è sordo agli slogan

Il punto del direttore del 6 novembre 2016

Ricostruiremo. E’ questo il verbo più pronunciato dalle istituzioni che si sono precipitate nelle zone terremotate per esprimere vicinanza e dare conforto alla gente che sta vivendo sulla pelle lo stillicidio di scosse e l’annientamento della speranza.
Ricostruiremo. Lo ha detto il presidente del consiglio Matteo Renzi quando quarantotto ore dopo il sisma di una settimana fa è arrivato con la moglie in visita privata a Preci.
Ricostruiremo. Lo ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando settantadue ore dopo si è soffermato davanti alla basilica distrutta di San Benedetto a Norcia e tra gli sfollati al Trasimeno.
Ricostruiremo. Lo ha detto la presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini in un giro veloce tra le Marche e l’Umbria per rendersi conto dei danni.

Lo stesso verbo coniugato sempre al futuro, prima persona plurale, lo hanno pronunciato le autorità locali, tra governatori e assessori, sindaci e politici, un po’ per tranquillizzare le persone e ridar loro un minimo di fiducia e un po’ per esorcizzare il dramma.
Ma la vita nei borghi non rinasce solo perché decliniamo un verbo. Le case, le fabbriche e le scuole non tornano su d’amble solo perché le autorità lanciano a parole un messaggio rassicurante dopo aver visto macerie e distruzione e dopo aver colto negli occhi di uomini, donne, bambini e anziani dolore e paura.
No, un paese non si ripopola con gli slogan e tanto meno sono gradite le strumentalizzazioni. Meglio calare un velo pietoso su castighi di Dio, richieste di rinvio del referendum e altre amenità simili.
Chiusa questa parentesi, torniamo a bomba ma prima va ricordato che c’è l’emergenza da affrontare, quella che si è scaraventata addosso ai nostri amministratori, e non dimentichiamo che questo terremoto non ha contato vittime. L’emergenza impone una priorità, l’assistenza agli sfollati, provvedere a fornire loro riparo decoroso che non possono essere le tende soprattutto con questo tempo. Ciò è scontato, non bisogna essere dei geni per capirlo. Quindi, per favore, chi ha il dovere, anzi l’obbligo, di muoversi, lo faccia e soprattutto lo faccia in fretta. Chi ha perso la propria casa, i propri beni, la speranza, non merita di sopportare pastoie burocratiche o lungaggini cretine.
E veniamo alla ricostruzione. Innanzi tutto sarebbe opportuno che in questo ambito si ripartisse dagli errori del passato per non aggiungere disgrazie a disgrazie, scandali a scandali. Perché in questo Paese siamo abituati a ricostruzioni sulla carta e non con il cemento se pensiamo che per il terremoto del Belice del 1968, che colpì una ventina di paesi della Sicilia occidentale, i conti non sono ancora chiusi e all'appello mancano 300 milioni. Ma anche in Irpinia, sisma del 1980, i lavori sono ancora in corso. Cantieri aperti anche all'Aquila (2009) e in Emilia (2012). Tra i modelli virtuosi di ricostruzione si ricordano invece il Friuli (1976) e l’Umbria-Marche (1997). Proprio quest’ultima esperienza di quasi 20 anni fa ci deve restare ben impressa perché anche grazie a quella ricostruzione oggi non piangiamo morti e soprattutto deve guidare le menti e le azioni di chi ha la responsabilità di ricostruire le nostre terre. E in questo grande lavoro a cui sono chiamate le istituzioni si compia uno sforzo di lungimiranza nel risanare la ferita provocata dal terremoto e nel mettere in sicurezza gli edifici rispettando una volta per tutte le regole antisismiche.
Le proporzioni di questa tragedia sono immani, lo abbiamo visto e constatato raccontando la disperazione e il terrore dei terremotati e degli sfollati. Si faccia tutto, ma proprio tutto, quello che c’è da fare in fretta e bene, vigilando sempre anche quando i riflettori si spegneranno, dando atto che c’è comunque un’Italia migliore che è quella della solidarietà e della generosità che un minuto dopo le scosse si è messa lodevolmente in moto.
anna.mossuto@gruppocorriere.it
www.annamossuto.it

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