lunedì 16 giugno 2014

La grande occasione
e la guerra tra bande

Il punto del direttore del 15 giugno 2014

L’Umbria ha cambiato verso. E non a parole o per slogan, bensì firmando un clamoroso ribaltone nella capitale, a Perugia, una delle roccaforti rosse più rappresentative e importanti. Qui ha vinto il centrodestra e ha perso il centrosinistra. Qui ha vinto Andrea Romizi e ha perso Wladimiro Boccali. Questo hanno detto le urne, questo è il risultato chiaro e inequivocabile del ballottaggio. Ora le letture sono diverse ma la sostanza della sfida non si discute.
C’è chi sostiene che non ha vinto Romizi bensì ha perso Boccali. Può essere vero. E questa è una chiave di interpretazione. Un’altra è che Boccali non ha vinto perché inviso alla città e il centrosinistra ha regalato Perugia a Romizi. O ancora il Pd, o una parte di esso, ha sacrificato Boccali ma nelle intenzioni voleva soltanto dargli un segnale poi però si è fatto sfuggire la situazione di mano.

Tralasciando per il momento le interpretazioni, proviamo a elencare una serie di dati certi che possono aiutare a capire. Il primo, il forte astensionismo che ha caratterizzato il ballottaggio rispetto al 25 maggio. L’8 giugno ha votato il 49,35 per cento, quindici giorni prima quasi il 70 (69,77). Venti punti percentuale in meno è un’enormità, una folla di elettori che ha preferito non votare, non scegliere, optando per il mare, la piscina o la scampagnata fuori porta. E lo ha fatto pensando che fosse ininfluente ai fini del risultato? Oppure visto il tempo supplementare se ne sono fregati di chi avrebbe vinto e di chi avrebbe perso? Il secondo dato. Senza il Movimento 5 Stelle il ballottaggio non sarebbe stato scontato. <CW3>Il ruolo dei pentastellati è stato determinante nello scacchiere all’inizio, durante e anche durante il governo delle amministrazioni. Basta riguardare le liste e rendersi conto che in quasi tutti i comuni con oltre 15mila abitanti i blocchi di partenza erano tre e di conseguenza la fetta dei consensi si sarebbe rimpicciolita per gli schieramenti tradizionali. Il terzo dato è più aritmetico. Romizi ha vinto con il 58,02 per cento tradotti in 35.469 voti, Boccali si è fermato al 41,98 con 25.666 preferenze. Il quarto dato, più significativo, è che a Boccali sono mancati 13.916 voti rispetto al primo turno, Romizi ne ha guadagnati quasi gli stessi (13.094).
Detto questo e senza aggiungere altri numeri il quadro è completo. Fermo restando che va dato a Cesare quel che è di Cesare, in questo caso a Romizi quel che è di Romizi. E cioè aver allargato alle liste civiche, ma soprattutto averci creduto fino in fondo nonostante i non brillanti risultati dei partiti che lo appoggiavano. E si è rivelato vincente anche se la sua candidatura è stata di rimpiazzo. Lo attende ora la responsabilità di governare una città che vuole ritrovare un’identità e un’anima. Per il bene di tutti l’augurio è di riuscirci. Il compito non è semplice, molto dipenderà dalla squadra che si sceglierà. Per Romizi e la sua coalizione è una grandiosa opportunità, sciuparla sarebbe imperdonabile.
In politica, dopo ogni elezione, i voti prima si contano e poi si pesano. Nel centrosinistra l’esercizio ha un solo momento. Ed è quello della debacle. Con tutto quello che si porta dietro, e cioè veleni, accuse, dimissioni, vendette, minacce. La verità è che il Pd è da un lato choccato da quanto accaduto, poco o per niente abituato a perdere le redini del comando, e dall’altro terrorizzato che nel prossimo futuro altre teste capitoleranno, altri palazzi subiranno il cambio della guardia.
Una sconfitta epocale e terrificante, un terremoto politico...le definizioni si sono sprecate in questi giorni e tutte appaiono insufficienti a rappresentare le dimensioni della batosta. E via con fiumi di inchiostro a dichiarare, a mettere le mani avanti, a rinfacciarsi la paternità del disastro. Uno spettacolo pessimo. Al cui confronto l’insuccesso di Boccali sembra una medaglia. A proposito gli va dato merito di essersi caricato sulle spalle il peso della caduta contravvenendo al detto che le sconfitte sono sempre orfane e le vittorie invece hanno mille padri. Ma non è così. Boccali è stato umiliato nel risultato da un pezzo di partito che lo ha tradito, lo ha lasciato solo perché doveva pagare la sua appartenenza a un apparato, alla ditta di bersaniana memoria. E inoltre ha pagato il suo non capire che la rendita di posizione si era esaurita, che il vento era cambiato, anzi gli soffiava contro. Così il ballottaggio è stato il campo di battaglia dove regolare i conti, dove mostrare i muscoli tra chi si ritiene paladino del cambiamento e del renzismo della prima o dell’ultima ora, e chi invece è ascrivibile alla categoria dell’establishment, del vecchio modo di amministrare. Bene, quella partita non ha prodotto vincitori perché hanno perso tutti, compresi coloro che volevano dare un messaggio a Boccali magari imprigionandolo in qualche assessorati. E soprattutto ha perso il partito nella sua globalità. Andare a cercarsi i colpevoli all’esterno i colpevoli del fallimento e non guardarsi dentro casa è un’operazione misera e controproducente. Ma i vertici del Pd, amalgama mal riuscito, anziché invocare una sana rottamazione per gli altri farebbero bene ad applicarla a se stessi. Perché chi oggi siede sulla sedia della segreteria regionale non è calato da Marte, prima faceva qualcosa a livello comunale, e la storia non comincia da febbraio. Così come chi siede sullo scranno provinciale non è vergine nella gestione del partito, anzi c’è da aggiungerci come aggravante anche la brutta figura rimediata con la candidatura nella città del Festival.
Insomma pare che la guerra tra bande, fino a una settimana fa sotterranea, silenziosa e lastricata di compromessi, oggi esplode nella sua prorompenza e nel suo fragore con il rischio di contare da qui a breve anche prigionieri, oltre che morti e feriti, politicamente parlando. Intanto la minoranza chiede la testa dei vertici del partito, i vertici del partito rispondono che ci penseranno. I botta e risposta e i messaggi avvengono a distanza, tra interviste e post su Facebook. Ma il partito dov’è? La contrapposizione tra vecchi e nuovi non esiste, non si vede a occhio nudo e neanche con il binocolo, perché se i vecchi hanno perso, i nuovi non hanno vinto. La questione dello stato di salute del Pd è molto seria, le lacerazioni senza una sintesi, un punto di incontro, avvelenano ancora di più il clima e ingigantiscono le distanze. In casi come questi servirebbe un elettrochoc, uno scossone, per rimettere in piedi il pugile suonato. Se fossimo in Matteo Renzi, il cui appeal ha fatto volare il Pd verso un record storico, azzereremmo tutto. Un bel reset a piazza della Repubblica e poi si prova a ricominciare daccapo. A volte i ko servono per rimettere insieme i cocci. Lasciarli per terra e far finta di niente o peggio ancora tirarseli addosso è peggio, anche perché il giocattolo rotto non s’aggiusta più.
anna.mossuto@gruppocorriere.it
www.annamossuto.it

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