Ci sono fatti di cronaca che turbano la coscienza, che impongono più di una riflessione. Quello che è accaduto in questa regione nell’ultima settimana è preoccupante. Due donne uccise, due vite spezzate. La prima, alla luce del sole, in una mattinata estiva, è stata sgozzata per strada da un uomo violento che dopo il gesto si è suicidato. La seconda è stata ammazzata a sprangate, chiusa in uno scatolone e gettata via come un sacco di immondizia, lungo una strada periferica e accanto ai binari.
I due delitti sono avvenuti a distanza di pochissimi giorni, pochissime ore, l’uno dall’altro. Ed entrambi accomunati dalla convinzione che la donna sia una proprietà, una “cosa”, quindi senza diritti e senza anima. Da qualche tempo gli omicidi che hanno per vittime le donne si chiamano, con un termine crudo, femminicidi, a sottolineare l’appartenenza di un genere. Un distinguo linguistico per rafforzare il concetto e per rimarcare la specie di delitto.
Un esercizio questo che rischia però di favorire solo una classificazione lessicale, chi guarda alla sostanza non si può lasciare incantare dai termini e dai sostantivi. Un assassinio è tale quando un essere umano toglie la vita a un suo simile. Punto.
Anche perché si possono verificare disparità di trattamento tra crimini e crimini, tra femminicidi e femminicidi. Come è accaduto proprio in occasione di questi fatti di sangue che sono stati compiuti a casa nostra.
Eh sì, perché dopo il primo delitto si sono affollati commenti, reazioni e prese di posizione, ovviamente di condanna, per quanto accaduto. Sono intervenuti istituzioni, politici e associazioni, fiumi di parole e di email si sono riversati sui tavoli delle redazioni. Per il secondo omicidio, altrettanto toccante per le modalità, nessuna reazione, tranne i due sindaci delle città interessate. Nemmeno una frase, nemmeno una riga di circostanza, nemmeno un copia e incolla delle parole pronunciate in precedenza.
Forse Olga, la badante ucraina di 62 anni, uccisa e buttata come un rifiuto, meritava meno attenzione e soprattutto meno indignazione rispetto all’altra vittima, Sandita, 38 anni, rumena, pure lei badante? Oppure ci sono femminicidi di serie A e femminicidi di serie B? Oppure dipende dalla nazionalità delle poverette o dalla loro età o dal giorno in cui sono state giustiziate? Sono chiaramente domande provocatorie, sono interrogativi che sorgono spontanei in una regione che si sta forse abituando, e questo è un male, a una violenza ripetuta che ci sbalza di continuo sulle prime pagine nazionali e sui titoli delle televisioni.
Vanno bene i convegni organizzati in materia nel fine settimana, vanno bene i messaggi in cui si invitano le donne a denunciare le sopraffazioni, ma non vanno bene le discriminazioni nel dolore, nella partecipazione, nella solidarietà. Fanno sorridere poi quei proclami di certi politici che se la prendono con i tagli delle risorse pubbliche per fare di più a favore delle donne. Provare e manifestare indignazione per la fine della signora Olga non c’entra nulla con i patti di stabilità. La vita di una donna vale molto, molto di più di un calcolo economico. E poi dove sono finite quelle associazioni femministe che ogni tanto organizzano delle iniziative tanto per riaffermare la loro esistenza ma in casi come questi hanno le bocche cucite? E i famosi centri di opportunità che amano discettare sui benefici della rappresentanza rosa nelle istituzioni, nei luoghi di potere?
Al di là dei casi specifici, questa regione è cambiata, la criminalità è fenomeno frequente e invasivo, condiziona i comportamenti e fa vivere un sentimento di paura. Una volta l’Umbria era considerata un’isola felice. Ora è diventata un’isola infelice. E la trasformazione è avvenuta sotto gli occhi di tutti, forse non abbiamo voluto vedere o forse abbiamo pensato che l’escalation di violenza fosse un fatto generalizzato e quindi comune a tante città. E allora mal comune mezzo gaudio? No, grazie, non può essere così, non deve essere così.
anna.mossuto@gruppocorriere.it
www.annamossuto.it
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