La rielezione di Giorgio Napolitano a presidente della Repubblica da un lato sblocca la situazione ma dall'altro testimonia il fallimento della politica, di questa politica. Inutile girarci attorno, giustificare un’operazione di maquillage o inventarsi uno stato di necessità. Una cosa diversa sarebbe stata se all’inizio dei giochi tutti i partiti, o la maggior parte di essi, avessero implorato al Capo dello Stato di rimanere per un altro mandato o per qualche anno.
Il tempo di formare un governo, realizzare quelle quattro o cinque riforme indispensabili e poi se l’accordo non avrebbe retto andare al voto. In questi termini sarebbe stato un atto di responsabilità della classe politica consegnare le chiavi del Paese a Napolitano visto anche il risultato elettorale di febbraio che non ha sancito una maggioranza autosufficiente. Così invece può apparire un ripiego, un salvarsi la faccia e anche il posto, per ora.
Quelle due votazioni che hanno impallinato prima Franco
Marini e poi Romano Prodi, con numeri e tradimenti diversi, suggellano questo
precedente storico, il bis di un presidente della Repubblica, che può essere
anche fatto passare come una scelta di autorevolezza. E guardando il tutto
dall’osservatorio del Colle l’accettazione di Napolitano viene letta come un
dovere a cui non potersi sottrarre.
In realtà i partiti storici, dal Pd ormai a brandelli al Pdl
che insegue l’intesa delle grandi coalizioni, non sapevano dove sbattere la
testa e si sono rivolti a lui. Una trovata per difendere ancora una volta il
sistema della partitocrazia che non ha il coraggio delle proprie azioni e non
ha la spinta del cambiamento. La conferma di ciò sta nel non aver votato e
neppure preso in considerazione un personaggio come Stefano Rodotà solo perché
era stato candidato dal Movimento 5Stelle. O tanto meno l'attuale ministro dell’Interno Anna Maria
Cancellieri perché era sponsorizzata dai montiani.
A prescindere dalle qualità dei soggetti messi in campo in
queste ore, il presidente della Repubblica dovrebbe essere il Capo di tutti gli
italiani, non di una parte politica. E la protesta sulla rete e nelle piazze fa
capire anche che forse è arrivato il momento di ipotizzare l’elezione diretta
del Presidente della Repubblica. Comunque Napolitano ha accettato a condizione
che i leader dei partiti che lo hanno voluto faranno quello che lui riterrà
giusto. Altrimenti nisba e bye bye. Quindi governo del presidente, attuazione
del programma dei saggi e indicazione della rotta. Un’altra verità, sotto gli occhi di tutti, è che il Partito democratico, popolato da franchi tiratori, si è profondamente spaccato in una manciata di correnti, confermando la guerra tra bande che da tempo caratterizza questo partito voluto dalla fusione di ex comunisti ed ex popolari. Partito forse mai veramente nato (“un amalgama mal riuscito” sentenziò un sarcastico D’Alema) ma comunque in queste ore letteralmente finito con i vertici dimissionari e il disorientamento alle stelle che si riverbera a cascata anche nelle periferie.
A livello locale non c’è bisogno di gettare benzina sul
fuoco. Le polveri già sono scoppiettanti anche se il più delle volte sono
coperte dalla cenere. Ma quando vengono allo scoperto la polemica è assicurata.
Con una tempestività che col senno del poi annunciava il dramma romano, il Pd
regionale, nella sua conduzione, si è ritrovato nel mirino di un documento
firmato da 18 ex Margherita che in una quarantina di righe si sono tolti un po’
di sassolini dalle scarpe e con schiettezza hanno detto pane al pane e vino al
vino. Hanno cioè spiegato che il partito così non va, che non è stato capace di
fare autocritica sulla sconfitta elettorale, che non è in grado di attuare il
riformismo e che il modello adottato fino ad oggi è pesante oltre che lontano
dalla gente. Tutte critiche che non sono spuntate ieri come boutade, non
sembrano neppure schermaglie o mal di pancia primaverili.
Appaiono invece il sintomo di un malessere che andrebbe
ascoltato e non ignorato, di una richiesta di confronto e non di una chiusura.
Certo, se poi le critiche anziché essere raccolte con spirito costruttivo e
senza pregiudizi o permalosità producono l’effetto di innervosire chi le
riceve, allora non si va troppo lontano.
Insomma il Partito democratico deve rimettere insieme i
cocci se vuole andare avanti. Qui e a Roma. Altrimenti la soluzione è soltanto
una e cioè quella di separarsi. Non si sta in un partito malvolentieri o peggio
ancora a dispetto dei santi.
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