domenica 1 maggio 2016

Primo Maggio, una non-festa

Il punto del direttore dell'1 maggio 2016

C’era una volta il Primo Maggio. Le iniziali maiuscole per simboleggiare la risonanza, l’importanza della data che fu. Oggi ha ancora senso celebrare la festa del lavoro visto che il lavoro non c’è più e ovviamente anche i lavoratori come si conoscevano prima sono sempre meno e per alcune fasce rischiano di diventare addirittura una stirpe in via di estinzione?
Se non c’è più l’oggetto della festa allora sarebbe meglio abolirla. E con la cancellazione dal calendario si provvederà più facilmente a eliminarla anche dalla Costituzione. Del resto l’articolo 1 (“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”) è diventato ormai una barzelletta. Anche se ogni tanto, soprattutto negli ultimi tempi, vengono strombazzati numeri incoraggianti sul tasso di disoccupazione, la realtà che si percepisce invece è che il lavoro da un lato si continua a perdere e dall’altro non si crea. Eppure questa ricorrenza ha attraversato trasformazioni profonde smarrendo il suo significato originario, quello della rivendicazione dei diritti, e anche quello acquisito di festa e svago. Ora è tutto diventato obsoleto, anacronistico, perfino beffardo.
Da quasi un decennio la crisi ha investito e bruciato giovani generazioni che da speranza di un paese sono diventati i nuovi poveri del terzo millennio, si susseguono riforme del mercato, all’inglese, ma il lavoro non si inventa per decreto, bensì studiando condizioni per gli investimenti e lo sviluppo delle imprese, alla luce soprattutto della grande rivoluzione tecnologica. Se la politica non ci mette testa in modo serio nell’elaborare opportunità è inutile lamentarsi della fuga di cervelli. Se non ci si rende che bisogna governare questa transizione è ipocrita oltre che disonesto versare lacrime di coccodrillo.
Le colpe sono di tutti, della politica in primis, ma anche degli adulti che hanno vissuto al di sopra delle possibilità non rinunciando a rendite di posizioni e difendendo privilegi antichi. Chissà, forse un patto tra generazioni potrebbe fronteggiare questo periodo di cambiamento perché anche se una bacchetta magica decreterà la fine della crisi nessuno di noi sarà lo stesso, sarà uguale a quando abbiamo imboccato il tunnel. Fare qualcosa significa assumersi la responsabilità dei danni causati, e i danni rispondono ai nomi di lavoro, crescita, dignità, futuro. Stare con le mani in mano o vantarsi di mezzo punto percentuale in più per i dati statistici sarebbe un errore, l’ultimo, imperdonabile per la nostra generazione, ma soprattutto per quella dei nostri figli. Sarebbe una sconfitta di tutti. E anche se all’inizio abbiamo detto che non ha più senso celebrare il Primo Maggio perché non c’è niente da festeggiare vogliamo pensare che prima o poi dappertutto, in questa regione come in altre, la classe dirigente senta il dovere di porre con forza il tema del lavoro, ma in particolare della cultura e dell'etica del lavoro. Perché senza lavoro non c'è futuro e allora tanto vale risparmiarci la pantomima delle frasi di circostanza che sa di presa in giro.

anna.mossuto@gruppocorriere.it

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